Giuseppe Impastato ucciso dalla mafia
“Era l’amore che voleva nascere”

Il 9 maggio del 1978, mentre l’Italia è sotto choc per il ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro (leggi Quel 9 maggio in via Caetani quando fu spezzata la storia d’Italia), a Cinisi – piccolo paesino della Sicilia affacciato sul mare a 30 chilometri da Palermo – muore dilaniato da una violenta esplosione Giuseppe Impastato. Stampa, forze dell’ordine e magistratura considerano in un primo momento la sua morte conseguenza di un atto terroristico suicida. Recita il fonogramma del procuratore capo Gaetano Martorana, poche ore dopo la scoperta dei resti: Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda. […] Verso le ore 0.30 – 1 del 9 maggio 1978, persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificata in tale IMPASTATO Giuseppe […] si recava a bordo della propria autovettura FIAT 850 all’altezza del km. 30 + 180 della strada ferrata Trapani – Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore.

“I ricordi di quel periodo sono terribili – racconterà Giovanni Impastato – È stato anche il giorno della morte di Aldo Moro. Per noi è stato un fulmine a ciel sereno, non ce l’aspettavamo. Ricordo che siamo anche stati trattati male dagli investigatori, che hanno perquisito le nostre abitazioni. Ci hanno preso per dei terroristi. Verso di noi sono stati brutali”. Contemporaneamente, però, comincia a delinearsi un’altra storia e la matrice mafiosa del delitto viene individuata anche grazie all’attività del fratello di Peppino, Giovanni, e della madre Felicia Bartolotta (“Peppino Impastato è stato assassinato. Il lungo passato di militante rivoluzionario è stato strumentalizzato dagli assassini e dalle ‘forze dell’ordine’ per partorire l’assurda ipotesi di un attentato terroristico. Non è così! L’omicidio ha un nome chiaro: MAFIA”, scrissero su un manifesto, affisso sui muri di Cinisi. E lo dimostrarono), che rompono pubblicamente con la parentela mafiosa e rendono possibile la riapertura dell’inchiesta giudiziaria

Le indagini si concluderanno solo nel 2002, con la condanna all’ergastolo di Tano Badalamenti, poi deceduto nel 2004. “È il primo compleanno che vivo con la pace nel cuore”, dirà il 24 maggio 2002 mamma Felicia, festeggiando il suo 86° compleanno. Scriverà la giornalista de «l’Unità» Sandra Amurri in un articolo del 2004 sulla morte di Badalamenti: “È ancora viva nella memoria dei cronisti che hanno assistito al processo, quella piccola donna, che gli anni hanno reso curva, vestita di nero, mentre saliva sul pretorio accompagnata dagli avvocati per rendere la sua coraggiosa testimonianza. Don Tano la osservava, muto, in video conferenza, mentre se ne stava seduto in una stanza del carcere americano”.

Felicia Impastato è la prima donna in Italia a costituirsi parte civile (insieme al figlio Giovanni) in un processo di mafia. Una Donna straordinaria, che non si è mai arresa, neanche quando tutti intorno a lei, la invitavano alla rassegnazione. Una mamma coraggio che ha sposato gli ideali del figlio e che con incredibile forza ha lottato per trasmetterli. “La mafia non si combatte con la pistola ma con la cultura”, dirà in una delle sue tante interviste. Una piccola grande Donna, che ricordiamo, insieme a Peppino, attraverso le splendide parole della poesia LA MATRI DI PIPPINU a lei dedicata, scritta nel 1979 da Umberto Santino, fondatore nonché direttore del Centro di Documentazione Giuseppe Impastato

Chistu unn’è me figghiu.
Chisti unn’ su li so manu.
Chista unn’è la so facci.
Sti quattro pizzudda di carni un li fici iu.
Me figghiu era la vuci chi grirava ‘nta chiazza
era lu rasolu ammulatu di li so paroli
era la rabbia
era l’amuri
chi vulia nasciri
chi vulia crisciri.
Chistu era me figghiu quannu era vivu,
quannu luttava cu tutti:
mafiusi, fascisti, omini di panza
ca un vannu mancu un suordu
patri senza figghi
lupi senza pietà.
Parru cu iddu vivu
un sacciu parrari cu li morti.
L’aspettu iornu e notti,
ora si grapi la morta,
trasi, m’abbrazza,
lu chiamu, è nna so stanza chi sturia,
ora nesci, ora torna,
la facci niura comu la notti,
ma si riri è lu suli chi spunta pi la prima vota,
lu suli picciriddu.
Chistu unn’è me figghiu,
stu tabbutu chinu di pizzudda di carni
unn’è Pippinu.
Cca rintra ci sunnu tutti li figghi
chi un puottiru naciri di n’autra Sicilia.

Traduzione:
Questo non è mio figlio. Queste non sono le sue mani, questo non è il suo volto, questi brandelli di carne non li ho fatti io. Mio figlio era la voce che gridava nella piazza, era il rasoio affilato dalle sue parole, era la rabbia, era l’amore che voleva nascere, che voleva crescere. Questo era mio figlio quando era vivo, quando lottava contro tutti, mafiosi, fascisti, uomini d’onore, che non valgono neppure un soldo, padri senza figli, lupi senza pietà. Parlo con lui da vivo, non so parlare con i morti. L’aspetto giorno e notte, ora si apre la porta, entra, mi abbraccia, lo chiamo, è nella sua stanza a studiare, ora esce, ora torna, il viso nero come la notte, ma se ride è il sole che spunta per la prima volta, il sole bambino. Questo non è mio figlio, questa bara piena di brandelli di carne non è Peppino: qui dentro ci sono tutti i figli non nati di un’altra Sicilia.