L’antifascismo e il mondo del lavoro
La lezione di libertà di Vittorio Foa
Il 20 ottobre del 2008 moriva a Formia Vittorio Foa, politico, sindacalista, giornalista e scrittore. Un uomo che dagli esordi in Giustizia e libertà, passando per la Resistenza, la Costituente, la militanza nella Cgil ha attraversato l’intera storia della sinistra italiana.
Nato a Torino il 18 settembre 1910, Vittorio consegue nell’ateneo cittadino la laurea in giurisprudenza nel 1931. Amico di Leone Ginzburg, nel 1933 si avvicina al gruppo antifascista di Giustizia e Libertà, collaborando con lo pseudonimo di Emiliano agli omonimi quaderni pubblicati a Parigi.
Viene arrestato a Torino il 15 maggio 1935 su delazione dell’informatore dell’Ovra Pitigrilli. Poco dopo l’arresto è trasferito a Roma, nel carcere di Regina Coeli e denunciato al Tribunale speciale fascista. Resterà in carcere fino al 23 agosto 1943.
Nel 1998 decide di rendere pubbliche dopo sessant’anni le lettere spedite dal carcere ai genitori, unica scrittura che gli era consentita. “Mentre tutto il mondo cambiava attraverso guerre, stermini e odi razziali – si legge nella presentazione del volume – Foa affermava con le sue lettere, settimana dopo settimana, la volontà di dare comunque un senso alla propria vita e di costruire un futuro. Il carcere consentiva al giovanissimo cospiratore torinese di «Giustizia e Libertà» di approfondire la propria formazione, soprattutto attraverso lo studio con uomini come Riccardo Bauer e Ernesto Rossi. Fu un esercizio della mente come scelta radicale e assoluta: più stretta era la costrizione, più determinata la voglia di trovare nuovi percorsi. Nelle lettere del 1938-39 i commenti sulla campagna razziale italiana sono una singolare eccezione al silenzio imposto agli ebrei di quel tempo. Paradossalmente la sola libertà di giudizio venne dal fondo di un carcere”.
Con la caduta di Mussolini Vittorio passa dal carcere all’illegalità nella Resistenza. Deputato alla Costituente darà un determinante contributo alla stesura degli art. 39 e 40 della carta costituzionale sulla libertà di organizzazione sindacale e sul diritto di sciopero.
Deputato socialista per tre legislature, nel 1955 diventa segretario nazionale della Fiom per passare, alla morte di Giuseppe Di Vittorio, alla Segreteria della Cgil.
Nel 1970 decide di lasciare gli incarichi sindacali per dedicarsi agli studi (dal 1987 al 1992 è senatore, eletto nelle liste del Pci e poi del Pds, come indipendente).
Dirà nel suo discorso di addio alla Confederazione: “Voi sapete che questo distacco è difficile. Mi consentirete di non vestire di parole dei sentimenti che sono agitati e profondi. Vi prego caldamente, in ragione di una antica stima reciproca, di dispensarvi da parole di commemorazione o gratificazione. Voglio solo ringraziarvi tutti, e con voi mille e mille compagni noti o sconosciuti, per quel che in tanti anni avete fatto di me”.
“Età e ragioni di salute – affermava nell’occasione Foa – mi hanno indotto a dimettermi da segretario della Cgil. Si è amichevolmente osservato che l’età non si misura col numero degli anni. Resta il fatto che, l’attenzione dovuta al merito che uno ha acquisito con molti anni di lavoro, contraddice la cruda necessità di congedare chi è logorato. Solo rimedio utile per attenuare quella contraddizione è la fissazione di un limite di età oggettivo, impersonale, oltre il quale si deve partire non per incapacità soggettiva, ma per una norma. E in questo caso la norma vale se non vi sono eccezioni. Si è anche osservato che uno deve, per la Causa, sopportare i malanni dell’età e una salute deteriorata. Ma se la salute ha poca importanza per i singoli, essa ne ha molta per l’organizzazione, soprattutto quando si tratta di quel logoramento tipico del lavoro sindacale che coinvolge il modo di lavorare, la calma e la necessaria capacità di percezione dei particolari del movimento, fuori degli schemi generici”.
“La Cgil è stata la sua casa”, dirà il giorno dei funerali l’allora segretario generale Guglielmo Epifani. “Se ne va uno dei grandi uomini del nostro sindacato. Dobbiamo ringraziarlo per tutto quello che ci ha dato e per il senso di libertà che ci ha lasciato. A volte la sua poteva sembrare una speranza disarmata, ma Vittorio ha sempre visto nel fare e nell’agire il legame tra la speranza e il cambiamento […] Si considerava un operatore sindacale, e la sua più grande preoccupazione è sempre stata quella di avere un sindacato autonomo. Fino agli ultimi giorni aveva chiesto di vederci, di parlarci: non si considerava uno messo di lato, si considerava, ed era, uno di noi”.
Negli ultimi anni della sua vita, Vittorio si era trasferito a Formia, dove viveva con la compagna Sesa Tatò, poi diventata sua moglie.
L’11 agosto del 1998, il Consiglio Comunale di Formia gli conferiva all’unanimità, su iniziativa del sindaco e amico personale Sandro Bartolomeo, la cittadinanza onoraria per meriti civili e culturali.
“C’è un insegnamento di Vittorio – diceva proprio Sandro Bartolomeo – che ricordo più di ogni altro: quello di guardare oltre le cose, perché c’è sempre una verità da capire, c’è una strada sconosciuta da seguire con coraggio”.
A dare notizia della morte di Vittorio Foa sarà, per desiderio della famiglia, l’allora segretario del Pd Walter Veltroni: “E’ un immenso dolore per noi, per il popolo italiano, è un immenso dolore per gli italiani che credono nei valori di democrazia e libertà, per l’Italia che lavora, per il sindacato a cui Vittorio Foa ha dedicato la parte più importante della sua vita […] E’ un dolore per me personalmente perché Vittorio Foa incarnava ai miei occhi il modello del militante della democrazia, un uomo con una meravigliosa storia di sofferenza, di lotta e di speranza, un uomo della sinistra e della democrazia, mosso da un ottimismo contagioso e da un elevatissimo disinteresse personale […] Penso che tutto il paese senta Vittorio Foa come uno dei suoi figli migliori”.
Aggiungerà l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Partecipo con profonda commozione personale al generale cordoglio per la scomparsa di Vittorio Foa. Egli è stato senza alcun dubbio una delle figure di maggiore integrità e spessore intellettuale e morale della politica e del sindacalismo italiano del Novecento. La sua dedizione alla causa della libertà, cui pagò da giovanissimo un duro prezzo nelle carceri fasciste, la sua partecipazione alla Resistenza, il suo appassionato e illuminato impegno nell’Assemblea costituente e nel Parlamento repubblicano, la sua piena identificazione – da combattivo dirigente della Cgil e da studioso – con il mondo del lavoro, gli hanno garantito un posto d’onore nella storia dell’Italia repubblicana. Egli ha dato prove esemplari del suo disinteresse e del suo rigore e ha vissuto i suoi ultimi anni con riserbo e sobrietà, rompendo in rare occasioni il silenzio per trasmettere messaggi sempre lucidissimi di fede nei valori democratici e costituzionali”.
“Un uomo – aggiungeva Massimo D’Alema – la cui vita è stata tutta una testimonianza dei valori e degli ideali della sinistra democratica” (Vittorio Foa disse al senatore Pisanò dell’Msi “Quando avete vinto voi, io sono finito in galera. Quando abbiamo vinto noi, tu sei entrato in Senato. Questa è la differenza tra dittatura e democrazia”).
Autore di numerosi libri (fra gli altri, Il cavallo e la torre, Questo Novecento, Lettere della giovinezza), Foa aveva pubblicato poco prima della morte Le parole della politica, scritto insieme a Federica Montevecchi.
“Forse – sosteneva nel saggio – il degrado della politica e delle sue parole sta proprio nell’agire pensando di essere soli e nel pensare solo a se stessi […] Io non credo che si possa insegnare a pensare al resto del mondo, ma pensare se stessi insieme agli altri è l’unico modo per ricostruire i cosiddetti valori…Vorrei vedere degli esempi perché è dagli esempi che nasce qualcosa”.
Parole sulle quali riflettere e dalle quali, magari, ripartire.
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