1956 i carri sovietici a Budapest,
Di Vittorio rompe l’omertà del Pci

Il 23 ottobre 1956 a Budapest un largo corteo popolare di solidarietà con la rivolta di Poznań, in Polonia, degenera in scontri tra polizia e dimostranti. La notte stessa il governo, presieduto dagli stalinisti Gerö e Hegedüs, viene sciolto. La formazione del governo Nagy non impedisce il divampare della rivolta nella capitale e nel resto del paese.

La condanna dell’intervento sovietico

Il 27 ottobre, di fronte alla decisione dei sovietici di intervenire militarmente in Ungheria, la Segreteria della Cgil assume una posizione di radicale condanna dell’invasione:
“La Segreteria della Cgil – recita il comunicato –  di fronte alla tragica situazione determinatasi in Ungheria, sicura di interpretare il sentimento comune dei lavoratori italiani, esprime il suo profondo cordoglio per i caduti nei conflitti che hanno insanguinato il paese. La Segreteria confederale ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi di governo e di direzione politica ed economica antidemocratici, che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari. Il progresso sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico, sono possibili soltanto con il consenso e con la partecipazione attiva della classe operaia e delle masse popolari, garanzia della più ampia affermazione dei diritti di libertà, di democrazia e di indipendenza nazionale”.

“L’evolversi positivo della situazione in Polonia – prosegue il comunicato – ha dimostrato che soltanto sulla via dello sviluppo democratico si realizza un legame effettivo, vivente e creatore fra le masse lavoratrici e lo Stato popolare. La Cgil si augura che cessi al più presto in Ungheria lo spargimento di sangue e che la nazione ungherese trovi, in una rinnovata concordia, la forza di superare la drammatica crisi attuale, isolando così gli elementi reazionari che in questa crisi si sono inseriti col proposito gli restaurare un regime di sfruttamento e di oppressione. In pari tempo la Cgil, fedele al principio del non intervento di uno Stato negli affari interni di un altro Stato, deplora che sia stato chiesto e si sia verificato in Ungheria l’intervento di truppe straniere”.

Giuseppe Di Vittorio

Di fronte ai tragici fatti di Ungheria e alla giustificata commozione che hanno suscitato nel popolo italiano, “forze reazionarie tentano di inscenare speculazioni miranti a perpetuare la divisione tra i lavoratori; a creare disorientamento nelle loro file, a ingenerare sfiducia verso le loro organizzazioni per indebolirne la capacità di azione a difesa dei loro interessi economici e sociali. La Cgil chiama i lavoratori italiani a respingere decisamente questa speculazione e a portare avanti il processo unitario in corso nel Paese, per il trionfo dei comuni ideali di progresso sociale, di libertà e di pace”.

La Direzione del Pci

Sulla “situazione del Partito in relazione ai fatti di Ungheria” il 30 ottobre si riunisce la Direzione del Pci.  Presenti Togliatti, Longo, Amendola, Li Causi, Scoccimarro, Sereni, Roveda, Pajetta, Dozza, Di Vittorio, Colombi, Berlinguer, Secchia, Roasio, M. Montagnana, R. Montagnana, Pellegrini, Terracini, Boldrini, D’Onofrio e Ingrao. Assenti Novella, Spano e Negarville. Partecipano alla discussione Pajetta, Di Vittorio, Roveda, Roasio, Secchia, Pellegrini, Amendola, Ingrao, Boldrini, Li Causi, M. Montagnana, Colombi, Sereni, Dozza, Terracini, Berlinguer, Togliatti e Longo.

Palmiro Togliatti

Scriveranno anni dopo Adriano Guerra e Bruno Trentin nel volume Di Vittorio e l’ombra di Stalin (Ediesse 1997): “Alle critiche di Togliatti a Di Vittorio si associarono, con argomentazioni e toni non sempre collimanti, tutti i membri della Direzione. Alcuni intervennero anche sul merito, come Roasio, Secchia (secondo il quale occorreva pero ‘abituarsi in certi momenti difficili ad avere anche posizioni diverse tra Partito e Cgil soprattutto se si allargherà l’unita sindacale’), Colombi (‘La posizione di Di Vittorio non può essere approvata dalla Federazione sindacale mondiale di cui è presidente. Cattivo il suo metodo di fare tutto da sé. I socialisti cercano di dirigere la Cgil’)”.

Le critiche a Di Vittorio

Altri posero soprattutto “un problema di disciplina, come Ingrao (‘Il compagno Di Vittorio sapeva di dire cose diverse da quelle della Direzione del Partito. Bisogna condurre la battaglia uniti’), Pajetta (‘I dirigenti devono farsi l’autocritica’). Amendola, che pure fu molto duro con le posizioni di Di Vittorio e della Cgil (accusati di aver ceduto al ‘pogrom antisovietico’ e di aver dato una ‘giustificazione agli intellettuali malcontenti’), impostò però il suo intervento – in esplicita polemica con Secchia (‘che spinge soprattutto alla lotta contro il revisionismo’) e forzando un poco quel che aveva detto Togliatti sugli errori dei due opposti estremismi – sull’esigenza di una ‘lotta sui due fronti’, contro le due posizioni sbagliate di destra e di sinistra”.

Di Vittorio replica ai suoi interlocutori con due interventi molto contenuti e sempre dominati dalla volontà di non rendere ancora più grave il “caso”, ma che non possono davvero essere considerati di accettazione delle critiche. Non a caso Togliatti dirà a conclusione che “la risposta di Di Vittorio non è stata quella necessaria”.

Il problema era insomma tutt’altro che chiuso come dimostrano gli avvenimenti dei mesi successivi.

Le crepe del partito

All’VIII Congresso del Partito (Roma, 8-14 dicembre 1956), il delegato di Cuneo Antonio Giolitti denuncerà l’impossibilità di continuare a definire legittimo, democratico e socialista ‘un governo come quello contro cui è insorto il popolo di Budapest’, definendo ingiustificabile l’intervento sovietico ‘in base ai principi del socialismo’.  Sul finire del successivo mese di luglio Giolitti spedirà la sua lettera di dimissioni, pregando che sia resa pubblica entro il 24.

“Ti scrivo ora, un po’ confusamente, le prime cose che sento di doverti dire, ancora sotto l’influsso del dolore che la tua decisione ha provocato in me […] – scrive a caldo Bruno Trentin -. Mi trovo così ancora smarrito e confuso, fra la tristezza, la consapevolezza che la tua scelta è stata dettata da sentimenti nobili e comunque rispettabili e una sorta di rabbia – vedi, ti parlo a cuore aperto – per il significato politico che la tua scelta viene a prendere. […] Lo sapevi; non posso condividere la tua decisione: né per il suo contenuto sostanziale (la sfiducia nelle possibilità intrinseche di rinnovamento del Partito) né per il quadro politico in cui esso nasce (per cui essa si profila in paradossale contrasto con i recenti avvenimenti dell’Urss e le loro storiche, inevitabili, conseguenze) né per le conclusioni che essa comporta […]. Su di te, bene e male, ricadeva in buona parte, il peso di una battaglia conseguente per il rinnovamento del Partito […] Le tue dimissioni non comportano soltanto un declino di questa responsabilità. Esse vengono ad affermare una cosa non vera e non accettabile: la impossibilità di assumerle nell’ambito del Partito […]. Antonio, so che capirai come la passione polemica, la rabbia che ho lasciato esprimere in questa lettera, sono proprio la migliore e più dura testimonianza dei sentimenti che mi legano a te. Tu conosci, nel mio comportamento, la stima e l’amicizia che io provo nei tuoi confronti. Sono sicuro quindi che capirai come soltanto con questa franchezza, con questa libera testimonianza del mio dolore e del mio dissenso, può rimanere salda la nostra amicizia e le nostre future possibilità di autentico incontro, nelle quali non dispererò mai”.

Le dimissioni di Italo Calvino

Il 7 agosto dello stesso anno « l’Unità» pubblicherà anche la lettera di dimissioni di Italo Calvino (“Commosso condivido la tua posizione sui fatti d’Ungheria”, scriveva il partigiano a Di Vittorio), una lettera che l’autore medesimo definirà ‘d’amore’ (l’intervento in Ungheria suscita il dissenso di numerosi intellettuali di sinistra, molti dei quali iscritti al Pci, i quali deplorano l’azione sovietica attraverso una lettera-documento conosciuta come  Il Manifesto dei 101, mai pubblicato sul giornale del Partito):

Italo Calvino

“Cari compagni devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal Partito […] Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita: vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito; ho avuto modo di conoscere la vita del Partito a tutti i livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio campo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo m’è stata di sprone a cercar di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa; credo d’esser sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero. Che questo mio atteggiamento non subirà mutamenti fuori dal Partito, può esser garantito dai compagni che meglio mi conoscono, e sanno quanto io tenga a esser fedele a me stesso, e privo di animosità e di rancori” (l’articolo-lettera di Calvino appare sulla settima pagina del giornale che titolerà Le dimissioni di Calvino dal Pci condannate dal C.D. di Torino, pubblicando subito sotto, in basso a destra, la risposta del Comitato).